Non andate a Rotterdam

Mancavo dall’Olanda da più di venti anni, quando ci passai oltre un mese per mettere a posto e poi far viaggiare fino al Mediterraneo la barca in acciaio che ancora ci accompagna nelle nostre navigazioni. Gli olandesi hanno una storia di eccellenza nella carpenteria nautica in metallo: le grandi barche a vela da carico che portavano merci su e giù per gli infiniti canali (un’infrastruttura, tra le tante, che in Italia non esiste e che c’era solo lungo il Po, ma lasciata andare in favore dell’asfalto) sono ancora naviganti, oltre un secolo dopo la loro costruzione.

Dall’inizio della mia avventura con e per la bicicletta non ho voluto più andare in Olanda, e se per questo neanche in Danimarca, sapendo perfettamente che ne sarei tornato amareggiato avendo toccato con mano l’abisso che separa quei paesi dal nostro, intensamente motorizzato e ancora convinto che la bicicletta sia un utensile sportivo al pari di una racchetta o di un paio di sci. E invece l’esistenza mi consegna una figlia che decide di andare in Erasmus a Rotterdam, lì dove Erasmo è nato. Quindi zitto e buono, con il mio carico di rassegnazione e vettovaglie su richiesta, mi imbarco all’inizio di novembre per andarla a trovare.

L’impatto davanti alla stazione centrale è abbastanza scioccante: freddo a parte, dal cielo cade una cortina d’acqua consistente, condizione meteo locale che la studentessa assicura abituale e che ricordavo anch’io, essendo il cantiere della barca a una ventina di km da lì. Lo shock mi deriva dalla vista immediata di parecchie decine di persone che vedo pedalare sotto l’acqua ma in jeans o gonna e calze. Cerco di intravedere sui loro volti smorfie di disappunto o comunque sentimenti negativi rivolti alla sfiga di pedalare in quelle condizioni e non ne intravedo alcuno. Come difesa dall’acqua solo giubbotti impermeabili e in qualche caso neanche quelli. Di completi antipioggia ne vedo sì e no un 6-7%. Una cosa stranissima, per me che quando butta a pioggia non esco senza avere nelle borse il completo antipioggia e traspirante di buona qualità.

Mi viene da pensare a quella formula stantìa che i benpensanti usano lanciare facendo spallucce a noi attivisti, “ma Roma non è mica Amsterdam”, a ogni tentativo di mostrare la necessità che il nostro paese sviluppi la ciclabilità come nel resto d’Europa, con l’Olanda come capofila. E penso anche al forte vento di quelle lande, che quando arriva dall’Atlantico con il suo carico di freddo e pioggia, trasforma ogni pianura in uno Stelvio.

Le bici che vedo sono esteticamente inaccettabili nella massima parte dei casi. L’incuria nella loro manutenzione mi risalta evidente, in un caso ho fatto la fila (la fila! Mi sembrava di sognare) dietro una ragazza con il filo del freno anteriore penzoloni e pericolosamente oscillante verso i raggi della ruota. In generale sono mezzi pesanti e maltenuti, ma quelli e quelle pedalano ugualmente per andare dove devono.

Qui invece si scannano per auto elettrica sì o no. Un paese di fessi.

Vivere in città-trappola non è un destino ineludibile

Piano piano l’argomento comincia a -è il caso di dirlo- farsi strada nel dibattito collettivo: ma in che città stiamo vivendo? Come siamo arrivati a rendere invivibili le nostre tane? In uno degli anni peggiori che si ricordino per mortalità sulle strade, e per le modalità con cui si giunge a una fine di vita anticipata a volte ai limiti della follia (basti pensare alle persone in bici o a piedi uccise da persone alla guida di mezzi pesanti, il caso Milano è eclatante), ci sono sempre più osservatori che -anche se lentamente- stanno inquadrando meglio il problema, a volte usando parole e concetti prese di peso dal mondo dell’attivismo, tradizionalmente indicato come una piccola ridotta di inguaribili sognatori e ingenui fricchettoni. E’ il caso, recente, dell’intervento sulle pagine romane del Corriere della Sera dell’ex pretore antismog come veniva definito negli anni ’90 Gianfranco Amendola, ex magistrato ed ex europarlamentare Verde.

In un intervento dal titolo “Capitale della lamiera”, appunto l’espressione che da anni circola negli ambienti della Critical Mass, Amendola punta il dito non solo sul fiume di sangue versato ma soprattutto, e questa è una novità da salutare come un raro momento di lucidità su un quotidiano, in chiave di occupazione spaziale. “Roma non è più una città per l’uomo -scrive Amendola nel suo editoriale- ma una città per le auto, che presto diventeranno più numerose degli umani”. Benvenuto.

Esiste un curioso esercizio comparativo inaugurato dal blog Turismo senza Auto e poi ripreso dall’altro blog Ambiente e non solo curato da uno dei membri del Kyoto club Marco Talluri: si mettono a confronto l’occupazione spaziale di umani e automobili in diverse città, calcolando che in un metro quadro entrano due persone e un’auto privata ne occupa mediamente 12,5. TsA ha messo a confronto Roma, Milano e Bologna, Talluri è andato oltre e ha applicato il calcolo a 14 capoluoghi di provincia. Non esistono dati attendibili sullo spazio non occupato dagli edifici, e per brevità il calcolo è stato fatto sull’intera superficie comunale, parchi compresi. Risulta che a Roma, quasi 700 veicoli ogni mille viventi e una superficie di 1.287 kmq, lo spazio occupato dagli abitanti è di 1.385.113 mq, quello occupato dalle auto 21.677.018: i quasi tre milioni di romani occupano lo 0,11% dello spazio cittadino. Lo spazio occupato dalle auto è quasi due volte e mezzo dell’area urbana del Lido di Ostia, sottolinea invece Amendola, ricordando che la capitale è la città più congestionata d’Europa e la seconda città al mondo per tempo buttato nel traffico: 21 giornate lavorative all’anno. Secondo l’ex magistrato non ci si può limitare a interventi migliorativi, comunque necessari, dei singoli servizi “se poi continua a dettar legge la città dell’auto con il suo corollario di egoismi, di isolamento e di prepotenze”.

Nel frattempo la situazione in città è precipitata nel caos grazie a quei cantieri che citavo in un mio altro intervento (e avevo dimenticato il rifacimento di piazza dei Cinquecento di fronte alla stazione Termini). I presidi dei licei del centro sono arrivati a tollerare ritardi di 20 minuti perché i ragazzi, banalmente, non riescono ad arrivare in tempo in classe anche se si alzano prima. E questo in meno di una settimana dello strangolamento viario inaugurato sabato scorso a piazza Venezia. Piazza che determina il centro di Roma e che incredibilmente viene ancora percorsa dalla veicolarità privata, una situazione esclusivamente italiana. Personalmente continuo a passare, ho maggiori difficoltà persino in bici, e vado spesso ad ammirare, rapito, l’enorme fila su via del Teatro Marcello alle pendici del Campidoglio, fila che non avevo mai visto con questa consistenza e questa costanza.

Un’altra commentatrice romana, Chiara Valerio stavolta dalle pagine romane di Repubblica, si è lanciata in un’ardita composizione in cui chiama addirittura in causa la bellezza della scuola dell’obbligo, che ha allargato le menti di gente abbrutita da una vita di stenti prima che la scuola fosse obbligatoria per tutti, che a suo parere non è più così bella per il fatto che “il diritto di imparare non è più accompagnato dal dovere di aver imparato”. Tutto questo per accollare ai nuovi semafori installati per la gestione del traffico veicolare la causa del disastro in atto in questi giorni. Che l’abuso di automobile sia la fonte prima di ogni guaio cittadino non salta neanche in testa all’autrice. Eppure sarebbe così semplice: basterebbe realizzare che dalla città trappola si può uscire con le proprie scelte, il resto verrebbe di conseguenza.

La lezione della mosca

C’è un momento esatto a cui faccio risalire la mia ricerca sulla semplicità come pratica, atteggiamento, lente di lettura, strumento di vita, e questo momento coinvolge naturalmente una bicicletta e, abbastanza sorprendentemente, una mosca.

Nella seconda metà degli anni ’90 sono andato in Tunisia per un viaggetto di un paio di settimane senza programmi precisi ma comunque verso le propaggini settentrionali del grande deserto africano, giusto per vedere un po’ com’era. La mia bici di allora era una AlAn da ciclocross un po’ fuori misura per me ma comunque mi ci trovavo bene, e ancora non ero così fanatico per la precisione delle misure come oggi: un po’ troppo alta ma in ogni caso la canna centrale, che oggi so chiamarsi tubo orizzontale, non mi sbatteva (troppo) sull’inguine scendendo dal sellino, quindi andava bene. Quella bici mi fu poi rubata per mia colpa, avendola lasciata appoggiata al muro mentre entravo in un negozio dove c’era un’offerta di calzini di spugna neri; un gran dispiacere ma in fin dei conti mica tanto, visto che la bici era ormai storta dopo un frontale con una grossa moto da enduro che mi ha lasciato acciaccato per un po’.

Tornando alla Tunisia e al momento della mosca, quel giorno di giugno partivo da Matmata verso Douz. Tutti al mondo conoscono Matmata, perché fu un set di Guerre Stellari, cioè la casa di Luke Skywalker quando ancora viveva con gli zii. Avrei finito la giornata a Douz, all’inizio della grande distesa salata (dunque bianca, accecante) dello Chott el Jerid; la Michelin mi indicava che il percorso era uno sterrato, quindi forse avrei dovuto dormire da qualche parte lungo i poco meno di 100 km di percorso. Salvo poi scoprire che giusto l’anno prima l’avevano asfaltato e il viaggio, che mi aspettavo lento e faticoso, si è rivelato un lampo, complice anche un vento furioso da dietro che per un tratto mi ha fatto andare a vela, avendo improvvisato uno spinnaker con il pareo legato al collo e al manubrio. Poi mi sono stufato di stare fermo e sono tornato a pedalare, velocità tra i 30 e 35 kmh, cosa che con la bici carica non è affatto usuale.

E’ a quel punto, circa a metà del percorso, che appare la dannata mosca. Si piazza nei dintorni del mio viso e non se ne va. La scacciavo di continuo, tornava, a volte non m’infastidiva ma altre si metteva nei dintorni delle narici, più spesso sotto il cappello nei pressi della fronte e delle tempie. Ci ho convissuto un’oretta scarsa, dunque una trentina di chilometri. All’improvviso ho capito: c’è un gran caldo, cerca ombra e umido. Levo il cappello e lo metto in tasca, la mosca scompare senza mai più tornare.

Semplicissimo ma ci ho messo un’ora a capirlo, un vero fessacchiotto. Penso spesso a quel momento, soprattutto quando mi trovo di fronte a scelte.

Ci penso anche quando guardo, sconcertato, la quotidiana fiumana di automobili che tracima nella mia città.

Roma, in questi mesi, è seppellita da cantieri in contemporanea. Al centro c’è la combinazione, geniale, del cantiere per la metro C a piazza Venezia e quello per il Giubileo davanti a S.Pietro in sponda destra Tevere: due punti nevralgici per il cosiddetto traffico, gli effetti si riverberano sull’intera città. Un solo giorno di questo inferno basterebbe per farti decidere di rottamare l’auto ma niente: imperterriti continuano a non cambiare modalità. Da tempo ho eliminato anche questa mosca dalla mia vita: il cappello che ho alzato è la scelta di muovermi in bici e non su mezzi a motore. Cosa manchi ad altri per realizzarlo mi risulta ormai incomprensibile.

Cantar messa ai trogloditi: la Settimana europea della mobilità sostenibile

Come ogni anno da qualche tempo a questa parte arrivano le celebrazioni della Settimana europea della mobilità detta “sostenibile”. Già solo il fatto di definirla tale e fare finta di non capire e soprattutto urlare che quella standard sia insostenibile qualifica l’iniziativa, un pannicello caldo al pari delle giornate Onu dedicate a qualcosa, l’ipocrisia istituzionale fatta manifestazione festosa.

Quest’anno è particolarmente doloroso constatare che questa fiera paesana viene calata in un contesto così feroce e così fuori controllo da rendere l’iniziativa particolarmente disgustosa.

Abbiamo già dimenticato evidentemente che dall’inizio dell’anno nell’operosa e Pilifera Milano cine persone in bici, quattro donne e un uomo, sono state uccise da altrettanti camion in manovra di lavor, alla gloria del cemento verticale od orizzontale della boriosa patria del dané. Una sesta, un’anziana donna, era a piedi mentre la sua vita veniva terminata da un furgone in retromarcia.

Inarrestato ed inarrestabile il fenomeno, a quanto pare meteorologico e quindi fuori dalla portata del controllo umane, delle automobili lanciate ad alta velocità, se ne leggono una o due al giorno solo nella mia città, Roma. Che siano bambini, adulti, anziani: nessuno può dirsi esente dalla possibile fine sotto le quattro ruote di un normalissimo cialtrone italiano qualsiasi. Non parlo solo di gente che ha scelto la bici ma letteralmente di chiunque, automobilisti compresi (basta che uno dei due mezzi sia più corazzato dell’altro).

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera di Milano riporta i risultati di una ricerca della Makno, che non ho visto ma tenderei a fidarmi, mica è un Feltrino qualsiasi: una quota consistente di persone sta abbandonando la bici come mezzo di spostamento urbano, la ricerca dice il 20%. E’ il risultato di una situazione invariata nel campo della motorizzazione e della crescita potente in quello della mobilità ciclistica. Una prospettiva che molti di noi attivisti avevano già paventato anni fa: se crescono i ciclisti ma in strada non cambia niente i morti fioccheranno.

Ecco, dagli inizi degli anni 2000 quando in Italia fu importato il fenomeno della Critical Mass – primo esempio di rivendicazione root delle strade accoppiato a una critica profonda del sistema economico, sociale, antropico a tutto tondo, quindi poco massificabile- ai giorni nostri, dopo che quell’esperienza ha fatto germogliare foreste di iniziative, nuove visioni, mode, stili di vita e anche esperienze di attivismo strutturato, nelle strade italiane non è cambiato assolutamente nulla. Il modello generale è quello del brùmbrùm con la macchina mia, e guai a chi me la tocca, e ci corro quanto voglio perché l’ho pagata e nessuno mi deve dire cosa devo fare.

Circa 15 anni fa volevo comprare un autovelox o simili: provate a fare la ricerca su Google con la chiave “autovelox” e ditemi. Escono fuori solo risultati su come fare ricorso alle multe o sistemi per individuare dove siano stati piazzati.

Questo è ancora oggi lo stato generale della mentalità collettiva. Continuare a proporre convegni e incontri e “pedalate”, che Dio li perdoni per la scelta del termine inchiodato agli anni ’80, per celebrare la Settimana europea eccetera ai miei occhi comincia ad essere non più solo offensivo come ho sempre pensato ma qualcosa da cui doversi difendere come se si trattasse di un’aggressione. In un video l’assessore alla Mobilità della mia città, che parlava alla tv dell’agenzia capitolina di cui è dunque l’editore, si beava del fatto che una cinquantina di associazioni -a Roma non ce ne sono così tante, soprattutto nel settore della mobilità, ma pazienza- si erano entusiasticamente mosse a coorte per partecipare a questa o quella manifestazione. Buon per loro, ci ricaveranno qualcosa. Per quel che mi e ci riguarda dobbiamo mettere il punto finale a queste buffonate che servono solo a lavarsi la coscienza senza cambiare di un’unghia il sistema che ci assassina per strada, e considero una partecipazione consapevole equivalente alla complicità nel reato di omissione. Capisco perfettamente le obiezioni che mi vengono rivolte ogni anno: “partecipare è utile a diffondere la cultura della mobilità anche verso chi non sospetta possibile il cambiamento”. La sento da quasi due decenni e la situazione è addirittura peggiorata, complici ance i trogloditi che mandano al governo gente inadeguata e si glorioano della valenza positiva della protervia stradale che mettono in campo ogni giorno, oggi persino benedetta dall’uomo che siede a Porta Pia.

Nella generale follia dei tempi mi piace segnalare la campagna anti tram che da mesi sta conducendo il Messaggero: il quotidiano di Caltagirone sta facendo delle giravolte impensabili, fino a far dire a sedicenti esperti che il tram inquina e fa diventare sordi, pur di non vedere costruita la tratta tra Termini e Vaticano. Una Settimana europea andrebbe fatta, sì, in questo paese di cavernicoli: quella della Mortalità insostenibile.

“La magia della bicicletta” è anche la sua capacità di generare conflitto sociale

“La bicicletta è assurta a un nuovo ruolo: quello di rovinafamiglie. La donna in questione è la signora Elma J. Dennison, di anni 23, residente a Brooklyn al 513 della Quinta Strada. Una «ragazza in bicicletta» che monta un veicolo da uomo e indossa pantaloni alla zuava. Sposata con Charles H. Dennison nel 1892, era dedita alle faccende domestiche, accresciute dall’arrivo di due graziosi bambini, fino al fatidico momento in cui il marito le ha regalato una bicicletta. Il signor Dennison racconta che la moglie è caduta vittima della febbre della bicicletta fino ad arrivare a trascurare tutto il resto: casa, figli e marito stesso. Viveva solo per la dueruote, e in sella a essa. In poco tempo è passata al modello da uomo, abbandonando le gonne in favore dei calzoni alla zuava. Da quel momento la signora dice che il coniuge ha cominciato a maltrattarla, tanto che è stata costretta a lasciarlo e ad avviare una causa di separazione per vessazione. Il signor Dennison sostiene che la moglie sia una maniaca della bicicletta e avanza come prova un messaggio ricevuto di recente: «Caro marito, incontriamoci all’angolo tra la Terza e la Settima, portami i pantaloni neri, una latta di lubrificante e la chiave inglese»”. “The Wichita Daily Eagle”Wichita, Kansas, 1896.

“Chris Heller ha presentato istanza di divorzio da Lena Heller presso il tribunale di Common Pleas per negligenza aggravata. A riprova del fatto afferma che la donna si rifiuta di ottemperare alle faccende domestiche e di preparare i pasti, essendo vittima della

mania della bicicletta e trascorrendo in sella quasi tutto il suo tempo in compagnia di persone estranee alle buone maniere”. «Akron Daily Democrat», Akron, Ohio. 1899.

“Domenica la polizia si è imbattuta in un terribile caso di maltrattamento. L’ex consigliere comunale Frank Dietz ha messo i ceppi ai piedi della figlia per non farla uscire di casa. La ragazza voleva andare a spasso con la bicicletta, ma il padre glielo aveva proibito e, temendo che potesse farlo in sua assenza, l’ha incatenata”, «The Des Moines Register», Des Moines, Iowa, 1896.

Questi sono tre brani tratti dal quinto capitolo di un libro strano che mi è capitato di leggere e addirittura gustare, “La magia delle due ruote. Storie e segreti della bicicletta in giro per il mondo” di Jody Rosen (Bollati Boringhieri, 350 pp, 26€ nella versione su carta). Dico strano perché per una volta non mi capita di imbattermi in specie di autobiografie, descrizioni appassionate di congegni meccanici, esaltazioni di questo o quel campione sportivo, e -il peggio- soporifere descrizioni di viaggio. Eppure si tratta di 350 pagine, che ci sarà mai scritto dentro? Di tutto, e in una buona maggioranza di casi narrazioni molto interessanti. Mi sono focalizzato sul quinto capitolo perché si intitola Ciclomania, termine che trovo piuttosto vicino alìi miei gusti ma che da subito tratta del rapporto conflittuale tra i generi agli albori del mezzo più efficiente che l’umanità abbia escogitato. Un conflitto che dura ancora oggi, come si vede dalle notizie che ci giungono da luoghi dove le donne soffrono di segregazione patriarcale avvolta dentro la facile carta stagnola della scusa religiosa, ma anche dalle varie rivendicazioni femministe che stanno riprendendo piede oggi qui e lì sul pianeta con ancora una volta la bici come mezzo di emancipazione.
Ciò che mi ha interessato particolarmente è lo sguardo di Rosen, (scrittore e giornalista statunitense, i suoi articoli su cultura, politica, trasporti e musica sono apparsi su «New York Times Magazine», «The New Yorker», «Slate», «Los Angeles Times») che spesso indugia sul mezzo bici come portatore di sconvolgimento sociale da qualunque lato lo si maneggi. La prima parte del libro esamina per esempio come il mezzo oggi “cavallo del popolo” sia nato come giocattolo per ricchi e abbia avuto la sua prima fase espansiva nelle classi nobiliari, attirandosi dunque le ire delle fasce basse della società. Un capitolo è dedicato ai tempi nostri e al Bhutan, staterello asiatico noto per aver inventato il principio-slogan della “Felicità interna lorda” come misura per valutare le performance economiche al posto del Pil. Qui il lancio della bicicletta come mezzo popolare è avvenuto ancora una volta grazie ad un’iniziativa nobiliare e addirittura concentrata in una sola persona: direttamente il re, anche lui caduto come molti di noi nella fascinazione totalizzante che spesso il mezzo induce. Notevole venire a sapere che in Bhutan non esistono altro che pendenze e dunque la pratica della bici è piuttosto complessa.

Ma è la capacità della bici di generare conflitto che mi interessa particolarmente e, a parte il capitolo finale sul cicloattivismo che non mi ha portato informazioni ulteriori, è il fil rouge che unisce la narrazione. La bici, nata per risolvere problemi, per fattori antropici ancora largamente misteriosi (non ho trovato spiegazioni convincenti da Rosen ma neanche lui se ne capacita) diventa stranamente un mezzo che pone altri problemi e tutti essenzialmente di percezione. Crea tifoserie contrapposte, a volte anche aspramente. In un caso si è anche prestata alla follia della corsa all’oro nel Klondike -esempio lampante di volontà brutale di arricchimento personale a discapito di quasi tutto, vita compresa, quindi lontanuccio dal mio modo di vivere-. Parecchi cercatori scelsero la bici per raggiungere il prima possibile i luoghi di cui si favoleggiava: in quel caso la due ruote si mostrò paradossalmente più veloce persino delle slitte, per motivi che Rosen illustra nei particolari. All’opposto dei cercatori, Rosen segue da vicino anche il pedalatore di un riscò della capitale del Bangladesh, Dacca, che dalla descrizione appare come la scenografia urbana più vicina all’inferno di cui si possa leggere, se non si considerano i libri di Dominique Lapierre.

Nei diversi libri che mi è capitato di leggere sull’argomento “bicicletta” ho travato qui e lì gli argomenti che Rosen tratta, ma non tutti insieme come in questa uscita editoriale.

Le parole per dirlo: sono scontri, non incidenti

Come dentro la classica ruota del criceto siamo costretti periodicamente a ripetere alcune semplici indicazioni lessicali per raccontare dal nostro punto di vista di persone in bicicletta qual sia la cruda realtà delle strade italiane. I risultati peraltro sono miseri perché la narrazione maggioritaria di quella che noi percepiamo come violenza stradale e la quasi totalità dei media tendono a minimizzare rimuovendo l’elemento umano nella responsabilità degli scontri e favorendo inoltre l’idea di una causalità, terribile ma pur sempre aleatoria, negli impatti derivanti dalla veicolarità.
E quindi ricominciamo, su. Ripetete con me: se un evento è ciclico non è casuale ma uno stato ricorrente di cose. Quindi non bisogna parlare di “incidenti” ma di “scontri”. Incidente, accidente, oh mamma mia che caso, guarda tu. Ecco, cominciamo a levarci dalla testa che morire in strada per impatti derivanti dall’uso distorto dei mezzi stradali incidentale: non lo è. Dice: “vabbe’ ma lo scrive lui, si sa che ce l’ha con le macchine” (sottotesto: “ci vuole far tornare al calesse, ‘sto luddista”).
Ci sto e mi prendo la mia parte di responsabilità.
Però giusto martedì scorso è stato presentato uno studio della Lumsa, l’università romana di ispirazione cattolica, dal titolo “L’analisi spazio-temporale degli incidenti stradali di Roma: determinazione delle componenti cicliche e dell’effetto di eccitazione”, coordinata da Antonello Maruotti, ordinario di Statistica, e realizzata da Pierfrancesco Alaimo Di Loro (ricercatore Lumsa) e Marco Mingione (ricercatore Università degli Studi Roma Tre).
Determinazione delle componenti cicliche: a mia memoria è la prima volta che in un papiello scientifico emerge quello che tra gli attivisti di una mobilità moderna è un fatto di assoluta evidenza. Ma si sa, noi siamo dei fricchettoni pauperisti e vediamo tutto sotto “le lenti distorte dell’Ideologia” (pensiero diffuso soprattutto a destra).

In estrema sintesi lo studio rivela che a Roma ci sono tre “incidenti” -aridaje- l’ora, un morto ogni tre giorni, due feriti l’ora. Tra il 2019 e il 2021 gli incidenti su tutto il territorio capitolino sono stati 77.483 di cui 28.499 con almeno un ferito o un morto (rispettivamente 35.748 e 311), per una media annua di 25.828 sinistri di cui 9.500 con almeno un ferito o un morto (rispettivamente 11.916 e 104). Il rischio più elevato è nelle ore centrali della giornata (7.00-19.00), con picchi stimati dalle 8.00 alle 10.00 e dalle 15.30 alle 17.30. Notare la concomitanza con gli orari legati al lavoro, e mandare un pensiero diciamo critico verso chi non vuole lo smart working, o lavoro da remoto, per alimentare l’economia della pausa pranzo è per me un portato sussidiario che non deve distogliere dal punto nodale: spostarsi in città come facciamo dagli anni ’60 è letale.

Luca Valdiserri, il padre di Francesco ucciso da una ragazza in macchina mentre era sul marciapiede, sta conducendo da allora una battaglia per riallineare le parole alla realtà. Fortunatamente scrive per il Corriere della Sera e la sua voce è supportata dal maggior quotidiano italiano, qualcosa si comincia a intravedere nella narrazione collettiva ma ancora troppo lentamente.

Il nostro dovere di adulti consapevoli è dunque di continuare a svelare il re nudo.

La risposta italiana alla lezione giapponese: Free Park

La lungimiranza è una qualità che ha bisogno di riflessione per diventare strategia, la rabbia al contrario è il gesto animalesco, che pure ci appartiene, che prende vita soprattutto dallo spunto personale. Nessuno dimentica la storia del sindaco giapponese criticato per anni per aver costruito un muro antitsunami: una ventina d’anni prima del disastro del 2011. Da allora in poi i suoi concittadini lo portarono in spalla. Lezione da noi incomprensibile -qui si parla di ponte sullo stretto di Messina-, che mi è tornata in mente dopo l’iniziativa, incredibilmente bella, della rivista Internazionale di pubblicare il numero di qualche settimana fa il titolo di copertina “Senza le auto le città rinascono”, ad illustrarla una grande bici a canna bassa (non si dice “da donna”, ricordatelo) che nel cestino anteriore ha dei palazzi, quasi ad abbracciarli con amore. Si parla di Tokyo e del Giappone.

Per quelli come me è stato un fulmine, abituati a sfogliare pubblicazioni che una pagina sì e una no reclamizzano la superiore, strafottente, orgasmatica potenza automobilistica. L’iniziativa di Internazionale, settimanale molto apprezzato che da 30 anni apre una finestra sul mondo agli italiani, è stata fuori dal coro.
Ancor di più andando a leggere che non si trattava come abituale della traduzione di un articolo ma dell’estratto di un libro, Carmageddon: how cars make life worse and
what to do about it
, di Daniel Knowles, giornalista del settimanale britannico The Economist. E’ con tutta evidenza una scelta di campo.

Otto pagine in cui Knowles spiega come Tokyo, metropoli vera di quasi 14 milioni di abitanti e non un paesotto come le nostre città, sia una città sostanzialmente demotorizzata. Tra le cose che mi hanno colpito: il risultato di Tokyo è un misto di scelta e casualità: il 35% delle strade giapponesi non sono abbastanza larghe da far passare un’auto, nell’86% se una macchina si ferma blocca tutto il traffico; dal 1957 è vietato lasciare automobili per strada di notte, sequestro e multa di 200K yen (circa 1.300€); in oltre il 95% delle strade giapponesi il parcheggio è vietato anche di giorno; dalla ricostruzione del dopoguerra tutto il mondo ha puntato su strade e automobili, in Giappone su ferrovie (e l’alta velocità nasce lì); i costi sono elevati anche se la benzina costa 1€;revisione obbligatoria biennale 670€; non puoi comprare un’auto se non dimostri dove saperla mettere, garage di proprietà o affittato, e lo spazio costa molto, quindi se proprio insisti ti compri una scatoletta piccola; il parcheggio a pagamento costa 6,5€ l’ora; pedaggi autostradali cari, in media 20€ per 100 km; stazioni ferroviarie come valorizzatore urbanistico, all’opposto del resto del mondo dove sono incubatori di disagio: si costruisce e si investe in appartamenti e locali nelle vicinanze, rendendo più facile la vita a tutti.
Da noi invece abbiamo fenomeni solitari come Free Park, il writer che giustamente sfoga la sua rabbia contro le auto parcheggiate ovunque verniciandole con la bomboletta.
Trovate le differenze.

Le due Italie incompatibili

Lungo le strade italiane i nodi stanno venendo al pettine: esistono due società non solo differenti e distantissime, ma a mio parere anche incompatibili. Questa infungibilità non è semplicemente filosofica ma pesantemente concreta e porta alla morte. Mentre scrivo nelle strade di Roma e provincia siamo arrivati a 75 persone rimaste uccise per scontri stradali dall’inizio dell’anno, una media terrificante di un morto ogni due giorni e mezzo.

A rendere evidente questa diversità antropologica è stato lo scontro degli ormai stranoti youtuber, il caso lo conoscete tutti: il challenge di 50 ore a bordo di una Lamborghini affittata, finito bruscamente contro una Smart con il risultato di uccidere un bambino. Tutto quello che è successo dopo può portare a qualche distrazione: l’inchiesta, le perizie, la scoperta tra molti adulti che esistono dei fenomeni come questo, ci si interroga sul reddito da click, sui giovani diseducati da genitori fragili. Tutto vero: ma il focus resta sul modo divaricato di vedere il mondo su cui vorrei concentrare l’attenzione. Nella mia testa è rimasta quella frase di uno dei disgraziati postadolescenti: più o meno “ma levate co sta Smart, pagata 300 euro al Conad, la mia costa un miliardo, vale come Amazon”. Qui c’è tutto: il disprezzo monetizzato, disprezzo per la normalità di chi va al supermercato, l’ammirazione per l’azienda dell’uomo più ricco del mondo, il diritto a prevalere perché sei seduto su una montagna di denaro, poco importa come l’hai fatto, l’importante è che su quella montagna ci sia seduto tu. Prevaricazione, sopraffazione, disprezzo per il più debole. Cose che ci ha insegnato il recente morto santificato a reti unificate. Sono in mezzo a noi da sempre ma solo negli ultimi trent’anni sono state elevate a sacramenti.

Dall’altra parte c’è una società che da anni si interroga sulle conseguenze negative del modo prioritario di spostarsi in Italia e decide di agire per cambiare le condizioni date. Un esempio è il gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano che la scorsa settimana hanno fatto conoscere un loro studio -idea nata dopo la morte lo stesso giorno di novembre di Davide Rebellin e Manuel Lorenzo Ntube: un campione e un ragazzo, comunque rimasti uccisi-. Il risultato è stato un documento unico in Italia, e ci si sorprende anche che nessuno ci avesse pensato prima, un Atlante che incrocia dati georeferenziati indicando con precisione estrema dove, come e quali siano i punti stradali di crisi in cui una persona in bici ci può restare secca se ne incrocia una su un mezzo motorizzato. L’Istat non ci aveva mai pensato. Dallo studio emergono altre evidenze, come il fatto che tra i morti e feriti in bici solo un quarto si è fatto male in autonomia, il resto è stato investito.

Queste due Italie sono incompatibili e non possono coesistere in strada a meno che non si accetti che il semplice spostamento possa portare alla morte, in qualsiasi momento.

Per me ciò è inaccettabile ed è ora che in questo paese si scelga da che parte stare.

E se il World Bicycle Day diventasse la vera parata per la Festa della Repubblica?

Non ho mai capito, fin da ragazzino, perché la Festa della Repubblica italiana venga celebrata con una parata militare. Si celebra il 2 giugno, che nel 1946 con referendum popolare chiuse in Italia il triste capitolo finale della monarchia. Non vedo cosa c’entrino aerei da guerra che lasciano scie di fumo tricolorato, truppe di vario tipo che mostrano quanto siano forti e disciplinate, retorica e saluti che possono indurre anche tra i più consapevoli a vedere questo show come una manifestazione del fascismo interiore che permea ogni manifestazione di marzialità (basta osservare le foto ufficiali dei nuovi governanti, sempre col mento proteso e lo sguardo fiero e in alto: gli porta bene alle urne? buon per loro, male per tutti).

Questo è forse il periodo storico peggiore per continuare a indicare le storture della retorica militarista nella vita concreta di tutti i giorni, con la guerra russa all’Ucraina che permea le paure dei contemporanei e che non facilita minimamente le voci che, in sintesi, dicono “disgraziati, ma che state facendo?”. Persino il Papa viene spernacchiato quando si azzarda a dirlo. E quindi mi sembra il momento ideale per mettere in campo iniziative che mostrino bene quanto questa retorica e manifestazione di scimmiesca muscolarità sia malata, pericolosa per la pace, pericolosa in sé e anche piuttosto grottesca.

Per uno strano caso del destino l’Onu, nel 2018, ha individuato nel 3 giugno il World Bicycle Day, occasione che in questo giugno diverse realtà associative hanno trasformato la data simbolica in una manifestazione reale lungo l’Appia Antica. Mentre partecipavo alla giornata ho pensato spesso alla differenza abissale che c’era tra il 2 giugno militaresco lungo via dei Fori Imperiali (creata, ricordiamolo, da Mussolini proprio per scopi simili) e la piccola gazzarra colorata che abbiamo fatto noi, persino con un improvvisato picnic lungo i sampietrini ancora oggi percorsi incessantemente dalle 4 ruote. Perché non farne ogni anno una parata alternativa a quella in mimetica e festeggiare la Repubblica? In fin dei conti la forma repubblicana è dovuta al disgusto per gli anni di guerra e dolore che il fascismo ci ha portato in dote, festeggiarla con il mezzo pacifico per eccellenza dovrebbe essere la normalità. Nelle motivazioni per il World Bicycle Day l’Assemblea Onu scrive chiaramente che si celebra la bicicletta come “mezzo per promuovere lo sviluppo sostenibile, rafforzare l’educazione, compresa l’educazione fisica, per bambini e giovani, promuovere la salute, prevenire le malattie, promuovere la tolleranza, la comprensione e il rispetto reciproci e facilitare l’inclusione sociale e una cultura di pace”. Direi che ci siamo in pieno.

Oltretutto il prossimo 2 giugno è una domenica e festeggiare in bici -in contemporanea agli unòduè – con il fruscio leggero delle ruote sottili potrebbe essere interessante e fortemente simbolico. Abbiamo un anno per prepararlo.

Festa della bici per non fare la festa alla bici

Questa volta non si manifesta ma si fa festa. Il motivo è abbastanza semplice -e come sapete tutti la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere, per gli adulti-: chi si muove in bici rappresenta l’unica fetta di popolazione che quando si sposta prova felicità.

E’ difficile per tutti ammettere apertamente che, vista nel suo complesso, la società italiana sia triste, quando non furiosa o preda di varie gradazioni di rabbia, nella pratica dello spostamento quotidiano. In fin dei conti anche noi che ci spostiamo in bici proviamo sentimenti negativi: ma questi nascono dal pericolo costante a cui siamo stati finora condannati in Italia, con abitudini di guida sostanzialmente criminali e che non accennano a diminuire o a essere anche solo parzialmente modificate. In un ambiente ideale lo spostamento in bici produce endorfine e il sorriso scaturisce naturale sulle labbra di chi pedala. In realtà io fischietto, perché quando sono contento mi piace ascoltare musica e non usando le cuffiette per avere anche l’udito ben lucido a fini di sopravvivenza sono costretto a produrre da me la musica che intendo ascoltare.

L’ambiente non è ideale in Italia. In un primo momento dopo il trauma del confinamento coatto causa Covid si era sperato che gli italiani avessero capito il valore assoluto del moto fisico, chiunque ricorda le lunghe file ai negozi di bici, svuotati in pochi giorni grazie agli incentivi ma si credeva anche grazie a quei momenti di libertà consegnatici dall’esercizio fisico in bici. Era illusione, naturalmente. Tutto è ripreso come e peggio di prima, città intasate quotidianamente, la mia in preda di continue trombosi nelle sue arterie intasate.

Inutilmente, peraltro: tonnellate di statistiche costanti ci raccontano da decenni che le automobili trasportano in media 1,2 persone e che nell’80% degli spostamenti individuali si percorrono 10 km.

Tutto inutile, gli italiani usano l’automobile come se fosse una bicicletta, ma non sorridono e sono pieni di guai, da quelli economici a quelli ben più seri dei danni a sé e agli altri e tutti provocati dall’abuso di un mezzo assurdo come l’automobile per spostarsi in città.

Uso indotto da decenni di lavaggio del cervello di un sistema incentrato su acquisto e dunque uso delle quattro ruote, laddove ne basterebbero ampiamente due a pedali per le necessità standard.

Sono decine per prove di questo incantesimo che attanaglia la società italiana convincendola che per muoversi ha bisogno di una quattroruote. L’ultima, sorprendente per me, è la congerie di articoli sul boom delle microcar elettriche: roba che non puoi portare in spalla, ha la capacità di carico delle mie due borse da bici, si ferma in coda come qualsiasi Suv e via dicendo. A Roma e provincia, mentre scrivo, siamo arrivati a 62 morti in strada e ognuno di questi ampiamente evitabile.

Non credo che usciremo da questo stato di incantesimo con interventi istituzionali, per il semplice fatto che il sistema basato sull’automobile è il primo contribuente fiscale italiano e chi strozzerebbe la gallina che dà le uova.

In questa condizione abbiamo deciso di festeggiare l’unico mezzo che di suo non ci dà problemi, con noi da un paio di secoli, dalla manutenzione vicina allo zero e in grado di percorrere molti km km solo mangiando una banana, o parecchie decine con una colazione robusta.

Il 3 giugno è il giorno identificato dall’Onu come Giornata mondiale della Bicicletta, ennesima buffonata che però almeno consente di segnare un giorno sul caledario, e guarda caso il giorno dopo la Festa della Repubblica che in Italia si festeggia facendo sfilare forze armate a bordo di mezzi militari di cielo e terra, quelli di mare sono esclusi sol perché la kermesse si svolge lungo via dell’Impero.

Il mezzo pacifico invece si concentrerà questo sabato lungo l’Appia Antica. Per tre ore di chiacchiere e svago dalle 10 alle 13 all’altezza del Quo Vadis, la domanda che Pietro rivolse a Gesù mentre scappava dalla persecuzione romana e che noi vorremmo rivolgere a tutti quegli sventurati che davvero credono all’automobile come mezzo di spostamento personale in città. In seguito alla festa di strada sulla via più antica del nostro paese ancora in funzione e abusata da mezzi a motore di ogni tipo, e in lizza per diventare patrimonio Unesco al pari del centro di Roma -ugualmente abusato- ci sposteremo sui prati adiacenti per un mega picnic collettivo e fare rifornimento al nostro mezzo preferito portando il metabolismo che lo muove al pieno di carburante. E’ consigliato portare cibo e bevande da condividere, oltre a un telo per stendersi comodamente sul prato. Strumenti musicali unplugged o elettrificati benvenuti, molti di noi biciclettari utilizzano delle casse bluethoot per ascoltare musica mentre si viaggia.

Si tratta di una festa ma l’abbiamo collegata al problema più gigantesco che l’umanità si trovi davanti, il cambiamento climatico causato dalle nostre rapaci abitudini. E’ anche stato messo sul sito festadellabicicletta.it a punto un documento scientifico che spiega come e perché la bicicletta sia il mezzo fondamentale per contribuire a far abbassare la febbre al pianeta.

Noi sappiamo che rimarremo inascoltati, molte sono le prove che l’autobus che ci sta portando a sbattere contro un muro di granito abbia addirittura accelerato la sua corsa, con incentivi a fonti fossili e persino all’industria militare. La tragica alluvione in Romagna ha già finito il suo effetto di allarme. Non intendiamo lasciarci scoraggiare e continuiamo a proporre questo stile di vita leggero e vorrei dire soave come parte di un cambiamento collettivo necessario per la nostra sopravvivenza come specie. Il Comune di Roma ha deciso di concederci lo status di “evento di interesse pubblico” e lasciarci occupare l’Appia Antica senza farci sborsare un euro. Il patrocinio è arrivato anche dal Parco Archeologico, che ci lascerà usare le sue strutture adiacenti.

La festa è aperta a chiunque si presenti in bici o a piedi, ci vediamo lì.